Venezia d’inverno s’ammanta
di discrezione, e chiede affetti esclusivi. Ama la luce soffusa, si veste di
nebbia, che filtra i colori dei palazzi sul Canal Grande — e capisci, finalmente
ne capisci il perché.
Oppure una più
tenue foschia, diafana rifrange i raggi di un sole che finge tepore. Alle
Zattere si va per cercare la luce, un’azzurra luce invernale,
intrisa d’umido
azzurro, si va per cercare lo sfavillìo delle onde al passaggio
dei vaporini, si va per cercare il sapore neutro della panna in ghiaccio, passeggiando
con indolenza, gli occhi semichiusi rivolti alla Giudecca, quasi una terra
promessa, o a San Giorgio, al suo campanile proteso. Vorresti attraversare il
canale, raggiungere l’opposta
sponda, ritrovare quel che conosci, ma poi ti accontenti di un prolungato
sguardo, quanto è
lungo l’andare
fino alla punta della Dogana.
Venezia d’inverno
sopporta solo sguardi complici, di chi abbia un cuore che batta al ritmo lento
e pacato del remo del gondoliere che mi traghetta in Canal Grande, di chi
percepisca il suono insolito dei passi nelle calli, e per questo, soltanto per
questo trattiene il respiro, di chi si soffermi davanti ad uno squero antico, sì quello dietro San Barnaba, di
chi si conforti al vociare dei ragazzini, che a Santa Maria Formosa rincorrono
chiassosi un pallone.
Venezia d’inverno si
lascia amare, languida di luce sontuosa. Venezia d’inverno esige devozione,
quando corrucciata s’avvolge nel
suo velo lattiginoso e gelido, t’avvolge, ti attira, t’ingiunge di non infliggerle l’onta di sottrarti ad un abbraccio cui altera si concede.
Venezia d’inverno è lontana, forse non esiste più, forse s’è dissolta nella sua stessa
caligine; ma so che non è sogno.
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