martedì 1 ottobre 2013

Girone, La Torre e la cultura del processo di Emma Bonino



Su La Repubblica di oggi 1 ottobre 2013, a p. 19 compare un articolo siglato V. N., dal titolo La svolta della Bonino: “non è accertata l’innocenza dei due marò”; in questo articolo è riportata la seguente affermazione, qualificata come «apparentemente banale e quasi dovuta dello staff del ministro degli Esteri Emma Bonino»:

«Non è accertata la colpevolezza, e non è accertata l’innocenza. I processi servono a questo».

In realtà, l’affermazione non è banale (e non si capisce perché l’articolista la considera «quasi dovuta», checché abbia voluto die con questa oscura precisazione); al contrario, quell’affermazione è piuttosto grave e notevolmente rozza; i processi, nei paesi democratici, nei quali vige il principio di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, servono per accertare la colpevolezza degli imputati; non servono, invece, ad accertarne l’innocenza e sarebbe oltremodo vessatorio se a questo servissero.

È grave e, più che grave, singolare che una signora con funzioni di Ministro degli Esteri, che proviene dal partito radicale, corifeo della libertà quanti altri mai, riveli questa rozza cultura del processo che è più omogenea con quella vigente dove e quando ha operato l’Inquisizione o dove operano i totalitarismi. Sarebbe auspicabile una presa di distanza da questa affermazione.

Indipendentemente dal resto, dei due militari Girone e Latorre l’autorità giudiziaria indiana deve limitarsi a dimostrare la responsabilità per la morte del pescatore ucciso e, di conseguenza, che essi ne hanno la colpa. Tutto qui. Se la nostra Ministra degli Esteri — la quale, per le verità, non si sa bene come ammazzi il tempo — si limitasse a richiamare questo semplice e limpido principio, senza lasciarsi andare, lei stessa o i suoi collaboratori ad affermazioni avventate, illogiche o autolesioniste, comunque inopportune e culturalmente rudimentali sulla funzione del processo, sarebbe tanto di guadagnato e comunque, sarebbe più dignitoso per la nostra disgraziata Repubblica.

E ciò dico facendo astrazione dall’opinione che ciascuno di noi possa avere su questa scabrosa e irritante vicenda. 

giovedì 26 settembre 2013

Canaglia e canagliette

«Ovviamente, dal punto di vista della democrazia, che si regge sulla forma, con la sceneggiata di queste dimissioni i deputati e i senatori del Pdl non rispondono più agli elettori  ma solo a Berlusconi che li legittima, sono servitori di un uomo e non di una politica e hanno definitivamente sepolto la funzione nobile del rappresentante di quella parte del Paese che si riconosceva in un progetto politico di centrodestra sia pure inficiato dal conflitto di interessi e dal porcellum elettorale».

Insomma si tratta proprio di canagliette al servizio di un pregiudicato, senza nessuna dignità, che rinnegano quella dignità che, indipendentemente dal valore personale di ciascuno di loro, deriva dal fatto di aver ricevuto un'investitura elettorale da parte del popolo italiano, che li ha chiamati a rappresentarlo, quale che sia la legge elettorale in virtù della quale sono stati eletti.
Ma, guardando le cose da un punto di vista più rispettoso del realismo critico della storia di questi ultimi anni, tramite la sceneggiata eversiva, vergognosamente eversiva, che tuttavia degrada inesorabilmente a gazzarra farsesca, che ieri è stata celebrata nell'assemblea dei parlamentari del Pdl, ne risulta svelata impietosamente la fine essenza della legge elettorale vigente, altrimenti detta appunto porcellum: l'investitura non è elettorale, poiché il procedimento elettorale, con questa legge, assolve ad una funzione meramente formalistica, nel deteriore senso di questo aggettivo, né proviene dal popolo italiano, che questa legge asservisce a mero strumento dell'operatività di tale procedimento al fine di produrre effetti perversi, ma proviene dal partito, nelle liste del quale queste canagliette sono stati eletti; il quale partito, però, nel caso del Pdl, si riassume senza residui nel suo padrone; e a questo padrone le canagliette infatti puntualmente rispondono, subordinando le proprie sorti di rappresentanti formalistici del popolo al volere del padrone, ad nutum domini si sarebbe detto in altri tempi.
E infatti, se così stanno le cose, si arriva dritti dritti a questa conclusione:

«Ebbene ieri sera quando Berlusconi ha misurato il suo dolore evocando l'insonnia e la gastrite, quando ha gridato "non voglio essere fatto fuori dalla Storia", quando ha chiesto loro di farsi saltare in aria come in una parodia della Jihad, quando insomma ha recitato il proprio epicedio, i burattini inanimati hanno applaudito lui e hanno seppellito se stessi».

 Mi domando come coloro che li hanno votati non meditino su quel che hanno fatto nella cabina elettorale e non se ne vergognino anche un po'.

I testi tra virgolette sono tratti da F. MERLO, I kamikaze del Cavaliere, ne La Repubblica di oggi 26 settembre 2013, pp. 1 e 31.





giovedì 20 giugno 2013

Con l'epurazione di Adele Gambaro un altro episodio del tecno-fascismo, che costituisce l'anima nera (e sempre più svelata) del grillismo e del suo capataz, si è consumato.

martedì 14 maggio 2013


Vermeer di Wisława Szymborska


«Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo».



venerdì 8 marzo 2013



Il punto è che se vuoi entrare in politica e dirigere un partito, o anche soltanto un movimento politico, soprattutto quando questo assume una dimensione e occupa uno spazio parlamentare, non puoi essere impegnato in attività imprenditoriali, soprattutto se con forte impronta finanziaria. Né è moralmente accettabile che i dirigenti delle tue imprese siano contestualmente dirigenti del movimento politico (meno che mai quando questo ha la dimensione e la fisionomia del partito) alla testa del quale ti sei posto, soprattutto quando ciò sia accaduto con un'autoinvestitura che non è passata per i normali strumenti di verifica democratica. Non è moralmente accettabile, ma non è nemmeno lecito che ciò accada. E' qui la sostanza di ciò che si denomina "conflitto d'interessi", che, in una situazione del genere inquina (come ha inquinato il quasi ventennio berlusconiano) il progetto politico propugnato, investendolo con un fascio di luce dai colori notevolmente ambigui.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/grillo-lautista-e-la-cognata/2202050

domenica 30 dicembre 2012


Questo luogo lieve e maestoso, con il suo pacato disordine prospettico è indissolubilmente legato, nella mia memoria più antica, intendo proprio nel suo angolo più riposto e infantile, alle feste natalizie e di fine d'anno. Da qui mi piace mandare i miei auguri a tutti, a coloro per i quali hanno un senso, e anche a coloro che non amano queste feste, e certamente con più di una ragione, per quel che sono di ritualmente retorico e di aridamente consumistico, e anche di umanamente frustrante. Il mio infantilistico e un po' ingenuo ottimismo, che non mi abbandona, mi porta ogni anno a considerare il piccolo evento meramente cronologico convenzionale, al quale attribuiamo il valore simbolico di festa, come una soglia, aldilà della quale potrebbe esserci quel quid noui, la speranza, se non l'aspettativa del quale strenuamente credo non debba abbandonarci mai. So bene, ho piena consapevolezza che questa speranza, per non dire dell'aspettativa, sarà con ogni probabilità tradita; che, anzi, il peggio non sembra affatto disponibile a fare un passo indietro, una volta tanto. Ma se dalla barcaccia guardo su verso Trinità de' Monti le nubi si diradano un po', tanto da permettermi di trovare l'energia per dire a me stesso che sarà pur vero che la stupidità e la malvagità, sorelle indissolubili, guidate dall'egoismo, che ne è il padre, instancabile loro pedagogo, riescono a renderci la vita amara, sarà pur vero che la naturale fragilità della nostra condizione umana minaccia senza riposo la nostra tranquillità, ma è anche vero che a tutto questo è possibile rendere difficile la partita.



Piazza di Spagna in una veduta di autore indeterminato del XVIII secolo

sabato 29 dicembre 2012


Venezia dinverno sammanta di discrezione, e chiede affetti esclusivi. Ama la luce soffusa, si veste di nebbia, che filtra i colori dei palazzi sul Canal Grande — e capisci, finalmente ne capisci il perché. Oppure una più tenue foschia, diafana rifrange i raggi di un sole che finge tepore. Alle Zattere si va per cercare la luce, unazzurra luce invernale, intrisa dumido azzurro, si va per cercare lo sfavillìo delle onde al passaggio dei vaporini, si va per cercare il sapore neutro della panna in ghiaccio, passeggiando con indolenza, gli occhi semichiusi rivolti alla Giudecca, quasi una terra promessa, o a San Giorgio, al suo campanile proteso. Vorresti attraversare il canale, raggiungere lopposta sponda, ritrovare quel che conosci, ma poi ti accontenti di un prolungato sguardo, quanto è lungo landare fino alla punta della Dogana.
Venezia dinverno sopporta solo sguardi complici, di chi abbia un cuore che batta al ritmo lento e pacato del remo del gondoliere che mi traghetta in Canal Grande, di chi percepisca il suono insolito dei passi nelle calli, e per questo, soltanto per questo trattiene il respiro, di chi si soffermi davanti ad uno squero antico, sì quello dietro San Barnaba, di chi si conforti al vociare dei ragazzini, che a Santa Maria Formosa rincorrono chiassosi un pallone.
Venezia dinverno si lascia amare, languida di luce sontuosa. Venezia dinverno esige devozione, quando corrucciata savvolge nel suo velo lattiginoso e gelido, tavvolge, ti attira, tingiunge di non infliggerle lonta di sottrarti ad un abbraccio cui altera si concede.
Venezia dinverno è lontana, forse non esiste più, forse s’è dissolta nella sua stessa caligine; ma so che non è sogno.